Piccolo contributo per diffondere, in Italia e nel mondo, la conoscenza e l'amore per le Bande e le Fanfare delle Forze Armate, dei Corpi di Polizia e delle Associazioni d'Arma della Repubblica Italiana, della Repubblica di San Marino e dello Stato della Città del Vaticano.
Tutti sono felici di andare in battaglia, tutti sono felici di afferrare un’arma: nessuno vuole essere lasciato indietro. Anche i nostri nemici dovranno ammettere che il popolo tedesco sta combattendo per una giusta causa e non è andato in guerra solo per turbolenza, come vogliono proliferare le macchine di propaganda francese, russa e inglese. La gente è in uno stato di enorme entusiasmo.
scriveva il giovane Paul nel suo diario, quando suo padre Robert si arruolò nell’esercito tedesco e partì per la Prima Guerra Mondiale.
Riesco a malapena a immaginare la maggior parte dei musicisti come soldati. Bach come un sergente scelto, magari con indosso un paio di stivali troppo grandi, andrebbe pure bene, ma Beethoven che si esercita con il fucile, Mozart che lancia bombe a mano o fa la guardia davanti a una caserma, Schubert come tenente dell’Aeronautica o Mendelssohn come sottufficiale in un convoglio militare? Sono inconcepibili!
Così scriveva il compositore Paul Hindemith (16 novembre 1895 – 28 dicembre 1963), all’inizio del suo addestramento militare nell’esercito tedesco, in cui si venne arruolato solo nell’agosto del 1917 (a causa di una malformazione cardiaca) nonostante la sua insistenza a voler prendere il posto del padre (rimasto ucciso poco dopo l’inizio del conflitto). Hindemith ebbe la fortuna di essere assegnato al Reserve-Infanterie-Regiment Nr. 222 (di stanza a Frankfurt), che aveva una banda musicale e un comandante amante della musica. Egli non solo permise a Paul di suonare il tamburo nella banda del reggimento, ma lo incoraggiò anche a formare un quartetto d’archi con altri commilitoni (Hindemith era violinista nella orchestra del Teatro dell’Opera di Francoforte) e a comporre musica per quella particolare formazione musicale. Tant’é che scrisse a un amico: Il servizio non è così difficile, ho molto tempo libero e posso lavorare su quello che voglio.
Nel gennaio del 1918, venne trasferito in un villaggio dell’Alsazia che non era direttamente al fronte: lì ebbe persino il tempo di comporre il suo secondo “Quartetto per archi N. 2 Op 10, un’opera generalmente convenzionale, ma con un’atmosfera nervosa e strana che sembrava andare leggermente fuori controllo in alcuni punti. Evidentemente la vita musicale sotto le armi lo stava cambiando. Mentre eseguiva con il suo gruppo il “Quartetto d’archi in Sol minore” di Debussy, nel marzo 1918, ricevette la notizia della morte del compositore francese e annotò sul proprio diario: Era come se lo spirito fosse stato rimosso dal nostro modo di suonare, ma ora abbiamo sentito per la prima volta quanto la musica sia molto più che semplice stile, tecnica ed espressione di sentimenti personali. Qui la musica ha trasceso tutte le barriere politiche, l’odio nazionale e gli orrori della guerra.
Nel mese di maggio del 1918, Paul Hindemith, trasferito nelle Fiandre e sperimentata – per la prima volta – la vita al fronte, scrisse: Verso sera otto bombe sono cadute nei pressi del paese. Uno ha colpito il convoglio di munizioni che era accampato a meno di dieci minuti di cammino da noi… Uno spettacolo orribile. Sangue, corpi pieni di buchi, cervello, una testa di cavallo strappata, ossa scheggiate. Terribile! Quanto si diventa meschini e indifferenti… Non credevo che avrei potuto mangiare o lavorare in pace dopo aver visto uno spettacolo del genere… E ora si sta di nuovo a casa a scrivere, chiacchierare, di buon umore, senza pensare a quanto presto la campana potrebbe suonare anche per noi. Resteremo illesi?
Durante l’ultima settimana di guerra, gli fu ordinato di andare in trincea come sentinella e si ritrovò sotto numerosi attacchi con granate. Il senso di sollievo per l’armistizio nel suo diario è palpabile: Fummo tutti svegliati e ordinati al Colonnello… Il Colonnello entrò dalla porta del castello accompagnato da diversi ufficiali e lesse a lume di candela… Rabbrividendo, udimmo che l’Imperatore aveva abdicato, che Ebert sarebbe diventato Cancelliere e – oh, più grande beatitudine! – che ci sarà il cessate il fuoco nei prossimi giorni… Siamo tornati a casa come abbagliati, a malapena in grado di cogliere questa notizia.
Tornato in Germania, ritrovò il suo posto in orchestra, ma decise di lasciare il Violino e suonare la viola e, soprattutto, di dedicarsi alla composizione. Dimenticò il romanticismo e si trasformò in un esponente dell’espressionismo se non addirittura della cosiddetta Musica d’avanguardia (descrisse la sua teoria armonica nel Ludus Tonalis 1940). Alla fine degli Anni trenta, in seguito all’ascesa del nazionalsocialismo, la sua musica cominciò a essere ritenuta degenerata e il suo rapporto con il nuovo regime si rivelò ben presto spinoso. Nel 1938, considerando le origini ebraiche della moglie, emigrò con la famiglia in Svizzera e poi, nel 1940, negli Stati Uniti d’America. Durante questo periodo completò le sue opere più famose, tra cui la “Nobilissima Visione” (1938) e “Metamorfosi sinfonica di temi di Carl Maria von Weber” (1943 ). Divenne cittadino statunitense nel 1946 e continuò a lavorare, comporre e scrivere fino alla sua morte nel 1963.
Ascoltiamo i tre movimenti della sua “Symphony in B-flatfor concert band” (Sinfonia in Si bemolle per banda da concerto) eseguiti dalla Banda musicale dell’Esercito statunitense americano (The United States Army Band) diretta dal Colonnello Andrew J. Esch. Il compositore la scrisse, su espressa richiesta del Tenente Colonnello Hugh Curry, nel 1951, proprio per questa banda. Chi meglio di loro!?
Nella primavera del 1921, il colonnello Giulio Douhet – dalle colonne del settimanale Dovere, di cui era direttore – lanciò l’idea di onorare gli atti di eroismo e l’estremo sacrificio delle centinaia di migliaia di soldati italiani caduti durante la Prima Guerra Mondiale (e, soprattutto, dei tanti rimasti senza nome o senza degna sepoltura a causa della mancata indelebilità dell’inchiostro con cui erano scritti i nomi dei militari sul foglio matricolare che portavano al fronte, in una tasca interna della divisa) nella salma di un soldato sconosciuto che rappresentasse idealmente il marito, il figlio, il padre di quanti non avevano la possibilità di onorare le spoglie mai ritrovate del familiare disperso. L’11 agosto di quello stesso anno, fu promulgato il provvedimento di Legge (n. 1075), che affidava al Ministro della Guerra la definizione delle modalità esecutive per la designazione e per le onoranze da rendere alla salma del caduto senza nome.
Il Ministro della Guerra in carica era, a quel tempo, il Deputato Luigi Gasparotto (eletto alla Camera – nel 1913 – nel collegio elettorale di Milano, ma nato e cresciuto a Sacile): sebbene esentato dal prestare servizio militare in quanto membro del Parlamento e nonostante l’età non più giovanissima (42 anni), egli aveva rinunciato al beneficio e combattuto in prima linea meritando, tra le altre, una Medaglia d’Argento al Valor Militare per il comportamento tenuto durante la battaglia per la conquista di Oslavia. Il Ministro della Guerra, On. Gasparotto, così aveva disposto: <<Il 4 novembre p.v. si renderanno in Roma solenni onoranze alla salma senza nome, di un soldato caduto in combattimento alla fronte italiana nella guerra italo-austriaca 1915-1918… La salma – che avrà sepoltura in Roma, all’Altare della Patria – deve essere esumata nelle zone più avanzate delle nostre linee, dopo accurati e scrupolosi accertamenti perché sia garantita l’autenticità che essa appartenga ad un soldato italiano caduto in combattimento. Affido pertanto il delicato compito all’Ispettore per le Onoranze Salme Caduti (Sua Ecc. Ten. Gen. Paolini) e prescrivo che a tale scopo esso costituisca una speciale Commissione da lui presieduta e composta: del Colonnello Paladini, capo dell’Ufficio Onoranze Salme Caduti e di un Ufficiale Superiore Medico destinato da] Direttore tecnico delle Onoranze Salme Caduti di questo Ministero (il Maggiore medico Nicola Fabrizi, N.d.R.). Ne faranno parte quattro ex combattenti e cioè: un Ufficiale, un sotto ufficiale, un caporale ed un soldato, che l’Ispettore anzidetto farà designare dal Sindaco di Udine (Luigi Spezzotti, N.d.R.).>> Avrebbe accompagnato la commissione – ma senza farne parte integrante – il cappellano militare don Pietro Nani, già collaboratore del poeta Giannino Antona Traversi nella realizzazione del Cimitero degli Invitti sul Colle di Sant’Elia (l’attuale Sacrario militare di Redipuglia). Circa l’esumazione delle salme, le disposizioni prescrivevano che le ricerche dovessero essere condotte <<nei tratti più avanzati dei principali campi di battaglia: San Michele, Gorizia, Monfalcone, Cadore, Alto Isonzo, Asiago, Tonale, Monte Grappa, Montello, Pasubio e Capo Sile.>> Su ciascun campo di battaglia, alla presenza di tutti i membri della commissione, doveva essere ricercata ed esumata <<la salma di un caduto certamente non identificabile>> e, per ciascuna esumazione, doveva essere redatto un verbale che precisasse tutte le cautele adottate durante l’esumazione. Le undici salme, infine, dovevano essere sistemate in altrettante identiche casse di legno, fatte allestire a Gorizia e traslate nella Basilica di Aquileia entro il 27 ottobre. Il successivo giorno 28, dopo la benedizione dei feretri, la mamma di un disperso in guerra avrebbe designato la salma che doveva essere onorata in eterno come “Ignoto Militi”. La bara prescelta doveva essere collocata all’interno di una cassa di legno lavorato ad ascia e rivestita di zinco, fatta allestire a cura del Ministero della Guerra e quindi doveva essere trasferita a Roma mediante uno speciale convoglio ferroviario. I rimanenti dieci soldati ignoti sarebbero stati tumulati nel cimitero retrostante la Basilica di Aquileia .
Risultarono designati – in data 26 settembre, con delibera del Sindaco di Udine – il Tenente Augusto Tognasso di Milano (mutilato, con 36 ferite), il Sergente Giuseppe De Carli di Azzano Decimo (Medaglia d’Oro al Valor Militare), il Caporal Maggiore Giuseppe Sartori di Zugliano (Medaglia d’Argento al Valor Militare), il Soldato Massimo Moro di Santa Maria di Sclaunicco (Medaglia d’Argento al Valor Militare) e quattro sostituti. Essi furono convocati per una riunione – che si svolse il 2 ottobre 1921 presso la sede udinese dell’Ufficio per le Onoranze ai Caduti, all’interno di Palazzo Caiselli – durante la quale vennero definiti il piano per le ricerche, le modalità per la designazione e altri problemi organizzativi e logistici. Al termine della riunione, il Generale Paolini pretese da tutti i partecipanti (compresi gli autisti, i falegnami, gli scavatori e tutti coloro che – a vario titolo – avrebbero operato insieme alla Commissione) il giuramento che mai avrebbero rivelato i luoghi ove si sarebbero svolte le ricerche. Poi – attraverso la Strada Statale 13, Ponte della Priula, Bassano del Grappa e la statale della Valsugana – i membri della Commissione giunsero a Trento. Il giorno dopo, essi mossero da Trento alla ricerca della prima salma.
<<…attraverso Rovereto, avvolta ancora nel silenzio del riposo e quando il sole stava per baciare le cime di quei monti che furono teatro di grandi gesta…>> scrisse il Tenente Tognasso nel suo diario (da cui sono stati tratti il docu-film La scelta di Maria di Francesco Micciché, trasmesso da Rai 1 il 4 Novembre 2021, e Il figlio ritrovato. Milite Ignoto: La sceltahttps://youtu.be/9S9KxUt_vdw portato in tournée dal gruppo teatrale Il Canovaccio e dall’Orchestra di fiati delle Forze Operative Nord dell’Esercito Italiano, diretta dal Sergente Cosimo Taurisano). L’ufficiale – va detto, a suo onore – mai ha nominato località o precisato i luoghi nei quali si svolsero le ricerche. Quel che sappiamo, lo dobbiamo al Colonnello della Riserva dell’Esercito Italiano Lorenzo Cadeddu ed è frutto di anni di infaticabili e sofferte ricerche: <<…l’unica località del Trentino di cui si parla nelle disposizioni emanate dal ministro è il Tonale (e non Rovereto). In termini geografici il Passo del Tonale dista in linea d’aria circa quaranta chilometri da Trento in direzione Nord Ovest, mentre Rovereto dista da Trento venticinque chilometri in direzione Sud Est. Non è verosimile che la Commissione abbia commesso un così grossolano errore né che, arbitrariamente, abbia modificato le disposizioni del ministro. È probabile invece che il settore a sudest di Trento sia stato ritenuto più idoneo per la ricerca, in quanto teatro di più aspri combattimenti, rispetto al settore del Tonale. Proprio a Sud Est di Rovereto, erano situati i punti più avanzati della massima penetrazione italiana: Zugna Torta, Coni Zugna, Costa Violina, Monte Forno ed altre località (conquistate d’impeto nel 1915 e perse nel 1916, a seguito della Strafexpedition). >>
Nonostante le più accurate ricerche, tuttavia, non venne rinvenuta alcuna salma insepolta. Venne allora deciso di esumarne una tra quelle di ignoti sepolti in un vicino cimitero di guerra che raccoglieva <<..il maggior numero di eroi..>>.
Rifacendoci agli esiti delle ricerche del Col. Cadeddu, il maggior cimitero di guerra del trentino, nel 1921, sorgeva in località Lizzana, proprio vicino a Rovereto. Il luogo anticamente era denominato Castello di Lizzana e vi sorgeva la residenza dei conti di Castelbarco: successivamente la denominazione venne cambiata in Castel Dante perché, secondo la tradizione, il Sommo Poeta – della cui morte, proprio quest’anno, si commemora il settecentesimo anniversario – vi avrebbe soggiornato nel 1303.
Nel dicembre del 1915, le operazioni offensive della 1^ Armata avevano consentito alle truppe italiane di avanzare lungo la Val d’Adige verso Trento, sino a raggiungere il margine meridionale del dosso (detto anche Colle) di Castel Dante e, più a oriente, le zone di Corna Calda e Costa Violina: sulle posizioni raggiunte, le fanterie italiane si rafforzarono allestendo trincee blindate, camminamenti e postazioni per artiglierie in caverna; il pianoro prativo di Castel Dante venne occupato d’impeto – la notte di Natale del 1915 – dai fanti del 114° Reggimento di Fanteria della Brigata Mantova, che vi si insediarono e lo difesero dai vigorosi ripetuti contrattacchi austriaci fino a quando, nel maggio 1916 (nonostante la strenua difesa da parte del 1/207° Reggimento di Fanteria della Brigata Taro) il sistema difensivo del saliente trentino fu perduto e il Colle di Castel Dante passò nuovamente e irrimediabilmente di mano.
Poco tempo dopo il termine del conflitto, il Colle di Castel Dante venne destinato a cimitero per raccogliere le salme provenienti da oltre centocinquanta cimiteri di guerra della regione trentina. Appena varcato il cancello d’ingresso del vecchio camposanto (- l’attuale sacrario risale agli Anni Trenta – si scorgeva, sulla destra, una lapide (sormontata da due baionette) sulla quale era scolpito il verso dantesco: Tutta la perfezion quivi s’ac quista; sulla sinistra, si trovava un riquadro di sepolture lì trasferite da una qualche località di montagna, di cui erano stati conservati tutti i monumentini, i cippi e la grande croce. Proseguendo lungo il viale d’ingresso si vedeva, ben conservata, la trincea in cemento armato costruita dai fanti del 114° Reggimento di Fanteria della Brigata Mantova. Oltrepassata la ridotta, la strada si biforcava: il ramo di sinistra saliva direttamente in cima al colle, quello di destra invece conduceva a un ampio locale detto “Sala della Riconoscenza” dove, in tre grandi vetrine, erano custoditi ed esposti al pubblico i piccoli oggetti appartenuti ai Caduti e rinvenuti addosso a loro (medaglie, amuleti, distintivi, monete, orologi e persino, dentro un elmetto, un teschio recuperato in un imprecisato tratto di fronte) mentre, sulle pareti, erano esposte fotografie dei cimiteri di guerra originari. Proseguendo per il ramo di sinistra si giungeva all’ossario vero e proprio, che era stato ricavato dall’antica cisterna del castello dei Castelbarco: una ripida scaletta in pietra portava al fondo del pozzo che, durante la guerra, era stato usato come ricovero per le truppe – sia italiane sia austriache – che presidiarono alternativamente quella posizione. All’interno vi erano custodite, in altrettante casse di legno, quattrocento salme di soldati ignoti “adottate” da altrettanti “benefattori” che, in memoria di un familiare disperso, avevano fatto una consistente offerta per la manutenzione del cimitero. Una targhetta, inchiodata alla cassetta, recava il nome del “benefattore” mentre su una parete erano stati riprodotti due versi della Canzone di Castel Dante musicata dal M° Riccardo Zandonai: “In faccia ai nostri monti ove soffrimmo,/ in faccia alle trincee ove morimmo!“. Dall’ossario si poteva salire direttamente a una terrazza che si apriva, maestosa, su un ampio tratto della fronte trentina. Vicino a questo impareggiabile osservatorio erano stati piantati alcuni cipressi che proteggevano dal vento le tombe dei Legionari trentini. Su un muro, una lapide ricordava al visitatore il sacrificio di Castel Dante e dei suoi eroici difensori: “Qui ove Dante cantò,/ Federico Guella/ sottotenente volontario/ con olocausto della vita/ consacrò il sito/ giovinezza ardente/ ai geni nostri sacra alla libertà latina./ Bezzecca sua culla orgogliosa lo piange/ Rovereto sua scuola lo venera/ Italia lo canta/ Con Lui/ il nobilissimo sangue profusero/ soldato Canter Angelo (Brescia)/ soldato Faciale Giuseppe (Padova)/ soldato Soto Ignazio (Chieti)“. A destra, sul versante della collina esposto a mezzogiorno, erano state sistemate le sepolture che originariamente erano tumulate nei cimiteri militari di Serravalle, Nago, Santa Margherita e Marco. A sinistra, erano state sistemate le salme dei cimiteri di Vo, Avio, Borghetto e Pilcante, nella parte più alta di quest’ultimo riquadro era stata innalzata una grande croce di ferro illuminata nelle ore notturne. Una lapide in marmo, murata tra blocchi di tufo, recava incisa una epigrafe, dettata dal Capitano dei Bersaglieri Giannino Antona Traversi: “Dalle nude zolle di Pilcante ove ebbero prima sepoltura tra il rombo e le fiamme, Qui fraterna pietà volle composte queste salme gloriose in più degna cuna di pace meta per tutto l’avvenire ai devoti della Patria“. Piccoli viali separavano i singoli campisanti, ricostruiti esattamente come erano nelle località di origine rispettandone proporzioni e simmetrie. Nel cimitero di Santa Maria era stata eretta una cappella votiva dedicata alla Madonna che custodiva un’artistica statua in bronzo della Vergine, illuminata da una lampada votiva. Completavano il versante meridionale della collina i cimiteri di Mori, Lizzana e Besagno. A destra del viale centrale erano situati i cimiteri di Coni Zugna, Santi Maurizio e Lazzaro, Santa Barbara e San Matteo, mentre a sinistra erano il Cimitero del Redentore e il Cimitero di Santa Giovanna d’Arco. Elmetti, croci, bossoli e filo spinato ornavano, con altri oggetti cari alla memoria dei combattenti, le semplici sepolture dei soldati. Nel versante a Est della collina, oltre ad alcuni riquadri nei quali erano tumulati i caduti della Legione Cecoslovacca, vi erano i cimiteri di San Giorgio, dell’Addolorata, di Crosano, di San Valentino e di Brentonico. Nel mezzo della spianata, si ergeva una cappella recante la frase – semplice, ma oltremodo significativa – PAX VOBIS e, all’interno del sacro tempio, erano stati sistemati un semplice altare e un’acquasantiera (realizzata con materiale bellico). Tra queste sepolture si aggirò la Commissione per procedere all’esumazione di un Soldato sconosciuto
All’epoca – in quello che era il maggior cimitero di guerra del Trentino, in località Lizzana, vicino a Rovereto – erano tumulate settemilaottocentoquarantanove salme provenienti da circa duecento cimiteri più piccoli, disseminati nella regione: tra queste, ben tremilaottocento appartenevano a Caduti non identificabili. Un numero che indigna, scandalizza, spaventa. Vale la pena, d’altro canto, ricordare che – durante la guerra – i caduti venivano tumulati (se e quando possibile!) in piccoli cimiteri, allestiti a ridosso delle trincee, e senza che venissero adottate particolari cautele: i cadaveri, infatti, venivano sepolti nella nuda terra (talvolta in fosse singole, ma molto spesso in fosse comuni). Non di rado, dopo intensi combattimenti, il campo di battaglia rimaneva in mano allo schieramento nemico pertanto la eventuale sepoltura dei morti era affidata al buon cuore degli uccisori. Tra quei seimila caduti ignoti fu presumibilmente esumata la prima delle undici salme tra cui sarebbe stata scelta quella del Milite Ignoto. Lo scavo venne eseguito a mano: pian piano vennero portate alla luce le diverse parti del corpo e, alla fine, <<…apparve un fante in atto di tranquillo e sereno riposo, vestito della sua uniforme e con indosso le giberne…>>
Ricomposti i resti su un lenzuolo, gli indumenti e gli oggetti personali del caduto furono accuratamente esaminati alla ricerca di un qualsiasi possibile elemento che ne consentisse l’identificazione, ma non venne rinvenuto nulla che potesse permettere di presumere una sua possibile identificazione: si trattava, senz’alcun dubbio, di un soldato ignoto. Più volte, nel suo scritto, il Tenente Tognasso, ha evidenziato la speranza (propria e di tutti i membri della Commissione e di tutti gli addetti allo scavo e al trasporto delle salme) che i resti esumati presentassero un qualsiasi segno che, consentendone l’identificazione, desse alle famiglie dei Caduti una pur minima consolazione. In quel caso, non fu possibile. Don Pietro, il cappellano, benedì la salma. Nel ricomporre la salma dentro una delle undici casse (fatte appositamente allestire a Gorizia), la mano pietosa di un soldato provvide a mettere rami di abete sotto la testa del caduto, come si trattasse di un cuscino. Inchiodato il coperchio, la cassa venne avvolta nel Tricolore e caricata su uno dei mezzi a disposizione della Commissione. Le auto ripercorsero la strada in direzione di Trento. Giunti nei pressi di Rovereto, una moltitudine di gente, che aveva pacificamente e silenziosamente invaso la sede stradale, costrinse i veicoli a fermarsi: erano cittadini di Rovereto, per lo più ex combattenti, che pregarono il generale Paolini affinché consentisse al mezzo che portava le spoglie del Soldato sconosciuto di attraversare la cittadina trentina a velocità ridotta, in modo che la popolazione potesse tributargli i doverosi onori. Nonostante la cittadinanza di Rovereto fosse, in qualche modo, venuta a conoscenza della presenza della Commissione solo poche ore prima, l’intera città fu completamente imbandierata e la quasi totalità degli abitanti si assiepò lungo le strade per far ala al passaggio del feretro. Giunta a Trento, la cassa venne sistemata su un affusto di cannone trainato da una pariglia di cavalli e trasferita sino al locale cimitero cittadino. Prima di essere sistemata per la notte sull’altare di una piccola cappella, la cassa contenente i resti mortali di quel Soldato Ignoto ricevette gli onori militari da parte di un reparto e l’omaggio di autorità e di semplici cittadini. L’indomani, alle prime luci dell’alba, la Commissione con il primo feretro mosse per la seconda tappa del suo pellegrinaggio alla ricerca della seconda delle undici salme. I mezzi si diressero ancora una volta verso Rovereto e – attraversando la Vallarsa, Pian delle Fugazze e le Porte del Pasubio – la Commissione giunse nel cuore del Massiccio che fu pilastro del sistema difensivo italiano durante la Grande Guerra.
Non sapremo mai chi descrisse tanto bene quei momenti all’assisiate Giovanni Papi (*) – che di Rovereto avrebbe diretto la Banda nel 1928 e di cui pochissimo si sa (solo grazie al prezioso archivio della Casa Editrice Tito Belati e alle ricerche di Giorgio Cannistrà) – ma questi luoghi e l’atmosfera che vi si respira e le immagini di quel corteo funebre si ritrovano nella sua PREGHIERA AL MILITE IGNOTOhttps://youtu.be/xZXpV0HsRWs : una meditazione, una preghiera intrisa di dolcezza che oserei dire materna…della dolcezza di tutte quelle madri, addolorate e fiere, al di qua e al di là delle Alpi che avevano perso i propri figli in guerra e che in qualche modo lo ritrovarono in quel soldato ignoto…della dolcezza della terra, altrettanto addolorata e fiera, in difesa della quale tanti giovani caddero combattendo. Di quella dolcezza – nulla si perde grazie alla giusta intonazione e alla espressione adeguata – in questa esecuzione da parte dei musicisti della Fanfara della Brigata Alpina “Julia” (di cui lo stesso Giorgio Cannistrà é insostituibile elemento) impeccabilmente diretti dal Sergente Maggiore Flavio Mercorillo.
Il Maestro Fulvio Creux – direttore emerito della Banda Musicale della Guardia di Finanza e della Banda Musicale dell’Esercito Italiano – ne ha detto un gran bene: <<Ascoltando questo brano si ha l’impressione che, più che alla tradizione bandistica italiana, appartenga a un gusto d’oltralope, sulla scia di importanti compositori di quei tempi. Si deduce questo dall’interesse delle armonie, dai frequenti cromatismi e dall’andamento generale, che porta il brano a essere più una meditazione che non, come sovente succede in questo genere, una marcia funebre. Il recupero ad opera di Giorgio Cannistrà si rivela utile per tutti quei complessi che vogliono presentare qualcosa di originale e diverso nei loro concerti legati a questo tema. Anche l’esecuzione del brano, abilmente diretto da Flavio Mercorillo, si evidenzia per la dolcezza, intonazione e l’adeguata espressione.>>
Sbadigli in tribuna autorità, applausi della tantissima gente e delirio alle prove.
La Parata dello scorso due giugno ha presentato qualche novità rispetto alle edizioni precedenti. Il morale delle truppe certamente è stato alto sin dalle prove, sia a Guidonia che soprattutto quelle notturne del 29 maggio ai Fori Imperiali, dove le ore di ozio che hanno preceduto l’ammassamento e il defilamento sono state condite da goliardici sfottò e una gioia molto diffusa, specialmente dai paracadutisti che hanno trovato un’ottima spalla nella fanfara della Taurinense e dai corpi civili, ammassati invece pochi metri più in fondo alle Terme di Caracalla. https://youtu.be/306NVcvrcTU La fanfara dei Bersaglieri e i Forestali hanno animato l’intero settore prendendo letteralmente in ostaggio Crocerossine e Corpo Militare CRI. Più silenziosi i militari della Marina, dopo l’indicibile affair “gavettone” dello scorso anno che si credeva fosse l’unico motivo dell’assenza del Comsubin dalla parata. Ci avevamo creduto anche noi che un gavettone tirato dai giganti verdi della Marina all’indirizzo del Capo di Stato Maggiore della Marina fosse l’unico motivo della loro mancata partecipazione, ma poi ci siamo guardati un po’ intorno. Le forze speciali mancavano praticamente ovunque: Il 9° Col Moschin e gli Alpini del 4° Parà sono rimasti altrettanto in caserma. Tra le forze di Polizia una fila per uno tra NOCS e GIS, che erano impersonati da uomini di altre specialità data la loro contenuta mole corporea. Il perchè di tale scelta resta misterioso: c’è chi parla di addestramento delle forze speciali in vista delle operazioni contro gli scafisti in Libia e chi di eccessivo buonismo.
Ad ogni modo noi che abbiamo sempre esecrato le polemiche sul due giugno, non inizieremo certo a farne oggi.
Osserviamo però, oltre alla giusta attenzione – che sempre si poteva dare – agli atleti militari e a quelli paralimpici, che l’iniziativa degli ombrelli colorati dei bambini, che hanno occupato metà della tribuna fotografi ammassando gli operatori dell’informazione in una tonnara, non si sa bene quale contributo abbiano aggiunto. Dallo scorso anno il ritorno delle Frecce Tricolori, rimaste nell’hangar per le edizioni 2012 e 2013 sotto al loden di Mario Monti che la sarta aveva riadattato anche un po’ ad Enrico Letta, ha esercitato uno straordinario effetto traino per la partecipazione popolare che è stata altissima, a livello delle parate dell’era Ciampi. Qualche polemica l’ha suscitata l’autore dei testi che sono stati distribuiti sia alla stampa – inclusi i cronisti della Rai – che letti dall’annunciatore ufficiale su via dei Fori. La Musica d’Ordinanza dei Granatieri ha sfilato nel grigio verde della Grande Guerra ed è stata venduta per la tenuta del 1848. La data di fondazione del primo Reggimento, scritta chiaramente sui tamburi in 1659 è stata letta per 1748 mentre la fondazione dei Corazzieri è stata anticipata al 1540 rispetto al 1868. L’affronto più grave è stato inferto alla Brigata Sassari che è stata accorpata ai Granatieri di Sardegna. L’accuratezza dei testi in una parola: un disastro. Tra le altre cose, ben tornate divise storiche. Sono uscite dai magazzini quelle confezionate per la parata del 2011 dei 150 anni dell’Unità, tra cui le prime file della compagnia storica della Guerra di Liberazione in divisa inglese del CIL, cosa che probabilmente non è nemmeno conosciuta da chi ha scritto i testi ma che il consulente militare che stava in cabina di commento Rai, solitamente il generale Fogari, non mancava di sottolineare. Un ultimo appunto sulle divise storiche del ’15-’18: non abbiamo capito bene di che colore fossero dato che ogni reparto, a seconda della sartoria ch ha preso l’appalto, ne aveva repliche di tinte sensibilmente diverse. Solo quelle dei Sassarini erano ineccepibili. Per il resto, dato il budget che le viene dedicato, la parata non è destinata ad avere novità di rilievo, sebbene il sapore di molti dei tagli che le hanno inferto è di sapore decisamente demagogico. Vadano i carri armati e i sorvoli aerei, ma se ogni corpo civile sfilasse con la sua banda e la parata durerebbe mezz’ora in più di sola musica. Quale sarebbe il costo? Il lucido per gli ottoni?
Della Grande Guerra iniziata letteralmente cento anni fa, di materiale video inedito ce n’è davvero poco; le immagini sbiadite, il bianco e nero dai contrasti forti delle pellicole di un secolo fa e le inquadrature granulose sono state mostrate infinite volte in ricostruzioni e documentari. Quello che però ha fatto con grande successo il regista Leonardo Tiberi col suo lungometraggio “Fango e Gloria” è andato ben oltre la semplice colorazione dei vecchi filmati.
Il film “Fango e Gloria” del regista Leonardo Tiberi, prodotto con il sostegno della Regione del Veneto da Maurizio e Manuel Tedesco per Baires Produzioni in collaborazione con Istituto Luce – Cinecittà, andrà in onda su Rai 1 domenica 24 maggio, alle ore 21.30, esattamente nel giorno in cui cento anni fa l’Italia entrava in guerra.
Il film è un esperimento ingegnoso e riuscitissimo di sonorizzazione e montaggio del materiale dell’Istituto Luce intervallato a parti di pura fiction.
A guidare lo spettatore è Mario – un giovane che ha vissuto in prima persona la tragica esperienza della Guerra – che racconta la sua vita, le passioni e quelle speranze coltivate quando da studente viveva in una tranquilla cittadina della riviera romagnola. Mario parla dei mesi della neutralità, mentre tutta l’Europa era già in fiamme e nel nostro Paese continuava a sopravvivere una flebile speranza di pace, per poi ripercorrere gli anni del conflitto durante i quali impara a convivere con una quotidianità fatta di paura, di fango, di freddo e di morte.
La storia di Mario ed Emilio, arruolati uno in fanteria e l’altro in marina, l’intreccio amoroso con Agnese inseguita da entrambi e le istanze della loro alta borghesia durante la guerra, stanno sullo sfondo senza ingombrare troppo la narrazione del conflitto attraversato dalle loro vicende immaginarie nelle sue fasi salienti. I tre personaggi vivono vicende umane realmente esistite ispirate da autentiche lettere, alcune tra quei quattro miliardi di missive di corrispondenza privata che hanno fatto la spola tra le prime linee e le case nei tre anni della guerra italiana. Questo enorme patchwork di vicende umane è il filo narrante del film, letto in una metaforica staffetta tra i tre personaggi ed arricchito da immagini originali, colorate, sonorizzate e in alcuni casi anche doppiate con plausibile interpretazione dei labiali dei veri soldati italiani, muti da cent’anni nelle bobine dell’Istituto Luce. Così alpini del ’99 che a spalla trainano un obice a tremila metri di quota tornano a dire “Si, siòr capitano” mentre Luigi Rizzo ordina il perentorio “Via” all’equipaggio del suo M.A.S. per lanciare il siluro che spegnerà nella pancia della Santo Stefano le velleità marinaresche dell’impero asburgico.
Nicola Zabaglia e Mario, interpretati da Alberto Lo Porto e da Eugenio Franceschini
Eugenio Franceschini (Mario) e Valentina Corti (Agnese)
Il grigioverde delle uniformi si mostra virtualmente per la prima volta dopo un secolo di grigio, così come le code tricolori degli aerei Caproni nel cui hangar di costruzione lavora Agnese, una delle tante donne assorbite dall’industria bellica mentre gli uomini sono al fronte. Il racconto della Grande Guerra arriva alla sua conclusione logica, con il viaggio in treno del milite ignoto dalla basilica di Aquileia all’Altare della Patria.
Fango e Gloria è un bel documento di grande effetto, nato forse senza troppe pretese e umile nel budget, limite quest’ultimo che non si coglie dalla qualità dell’opera, ma dalla pressoché artigianale distribuzione che se da un lato lo ha reso un prodotto di nicchia preservandolo dal vasto pubblico che non lo avrebbe compreso, dall’altro lo ha reso sinora difficile da trovare per appassionati e cultori del genere. Dal 21 maggio 2015, però, sarà finalmente in vendita on line e in tutte le librerie e il 24 maggio 2015 alle ore 21:30, in occasione del Centenario dell’entrata dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale.
Marco Potenziani
CAST: Eugenio Franceschini (Mario), Valentina Corti (Agnese), Domenico Fortunato (Il padre), Francesco Martino (Emilio), Alberto Lo Porto (Nicola Zabaglia), Michele Vigilante (Ufficiale Alpino) et cetera et cetera