Nikolajewka… Ritorno alla baita

Il racconto audiovisivo del concerto NIKOLAJEWKA…RITORNO ALLA BAITA della Musica di ordinanza della Brigata alpina Julia dell’ Esercito Italiano nell’auditorium dell’Istituto Professionale per l’Agricoltura e l’Ambiente Stefano Sabbatini a Pozzuolo del Friuli – che non sarebbe stato possibile senza Marco Vidoni e il “suo” OverlandChannel – ha inizio con l’esecuzione della marcia di ordinanza dell’Esercito Italiano, diretta dal Graduato Aiutante Calogero Scibetta.

Questa marcia, in origine, era dedicata al Comandante della Banda dell’Esercito (Col. Francesco Pellegrini). Quando il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano (Gen. Giulio Fraticelli) ebbe modo di ascoltarlo, rimase talmente colpito dal tema principale, ispirato al Coro dei Pellegrini dal Tannhäuser di Richard Wagner, che la volle subito come Marcia d’Ordinanza dell’Esercito Italiano. Con il titolo 4 MAGGIO, data in cui nel 1861 fu fondato l’Esercito Italiano, la marcia composta dal Maestro Fulvio Creux fu presentata ufficialmente la prima volta il 29 aprile 2004 alla presenza del Presidente della Repubblica Italiana, Carlo Azeglio Ciampi, che ne siglò l’avallo definitivo.

Poi la Musica di ordinanza della Brigata alpina Julia, diretta dal proprio Capomusica (Sergente Maggiore Flavio Mercorillo) ha eseguito un brano del noto compositore lussemburghese Georges Sadeler: DOLOMITI.

La composizione – vincitrice del VI Concorso internazionale di composizione per marce Città di Allumiere nel 2021 e del Trofeo Maestro Rossano Cardinali (fu clarinetto nella Banda musicale dell’Arma dei Carabinieri) – presenta i tratti tipici della marcia in stile nord- europeo: è costituita da una prima parte solenne, da un Trio dal tipico carattere lirico seguito da una piccola ripresa del tema iniziale che avvia la composizione verso la sua conclusione.

Jo sol stade a confessami, Olin bevi, Vin sudàt, Giovanin color di rose: sono solo alcune delle villotte friulane contenute nel medley FOLK VALZER (RAPSODIE FURLANE) eseguito dalla Musica di ordinanza della Brigata alpina “Julia” ( Esercito Italiano) durante il concerto NIKOLAJEWKA…RITORNO ALLA BAITA.

Le Villotte – composizioni polifoniche, caratterizzate da un breve testo poetico popolare, legate all’antica tradizione del canto popolare friulano – si diffusero in Friuli a partire dal XV secolo. La trascrizione più antica di una canzone friulana riporta la data del 14 aprile 1380: il testo della ballata – intitolata Piruç myò doç inculurit – era stato inserito addirittura un documento rogato, redatto da un notaio a Cividale del Friuli in quell’anno. Circa tre secoli dopo, un tale Ermes di Coloredo (Colloredo di Monte Albano, 1622 – Gorizzo di Camino al Tagliamento, 1692) trasformò la villotta da canto di tradizione orale a produzione compositiva d’autore. Due secoli oltre, le ballate friulane cominciarono a essere raccolte (a partire dal 1865 per i versi e dal 1892 per quanto riguarda la musica) e catalogate per soggetti: l’amore, la natura, l’invito sessuale, il sarcasmo, la canzonatura, la rivendicazione, la guerra, l’emigrazione. La raccolta più nota rimane, ancora oggi, quella di Adelgiso Fior (1954, Milano, ristampa anastatica a cura dell’Associazione Culturale Fûrclap 2003), che censisce circa quattrocento Villotte friulane. Tuttavia si ritiene che le Villotte siano molte di più, circa 600 con oltre 1700 varianti!

Poi il Capomusica – Sergente Maggiore Flavio Mercorillo – ha ceduto la bacchetta al Graduato Capo Giorgio Cannistrà affinché dirigesse una composizione originale per banda scritta, in tempi moderni a noi contemporanei, da un autore italiano. Incredibile, ma vero! Mi riferisco, ovviamente, al fatto che raramente i compositori italiani dedicano attenzione ai corpi bandistici.

Federico Agnello é nato in un “porto di mare” (nel senso più letterale del termine, visto e considerato che é nato ad Augusta, in provincia di Siracusa), ha musicalmente navigato dal Conservatorio Arcangelo Corelli di Messina a molti festival nazionali e internazionali di musica originale per banda ed é infine approdato al Conservatorio Francesco Antonio Bonporti di Trento (dove si sta perfezionando in strumentazione e direzione di banda). Dai luoghi di questa meravigliosa zona si é evidentemente lasciato ispirare nella composizione di un brano per il Corpo Bandistico di Andalo dal titolo FROST RHAPSODY, nel quale ha saputo descrivere talmente bene le atmosfere magiche della montagna da aver conquistato il primo premio al quinto concorso internazionale di composizione per banda giovanile Città di Sinnai (2014). L’introduzione é coinvolgente e invitante: quel tanto da invogliarci a incamminarci alla scoperta dei sentieri della montagna, seppure impervi e scoscesi. La fatica e i rischi del cammino – che si ritrovano nella parte “oscura” che segue la prima parte del brano – sono premiati dalla soddisfazione del panorama di cui si può godere una volta raggiunta la vetta (come si respira nel tema iniziale, ripreso in forma “grandiosa”). A questo punto, si palesa Frost, la leggendaria figura del gelo, rappresentato da un dolce solo di flauto e un particolare effetto di fischi (il vento?) porta la neve: una sezione dolce che, con temi sottili e fluidi, descrive prima la neve che si posa dolcemente sul terreno e poi la maestosità della montagna completamente innevata. E dalla poesia alla magia e al divertimento il passo é breve: i pupazzi di neve prendono vita e trasportano l’ascoltatore, con ritmiche e armonie cangianti, verso un finale rallegrante che descrive le attività ludiche e sportive tipiche delle vacanze invernali in montagna. Gli organizzatori di Milano Cortina 2026 e l’Ente Nazionale per il Turismo dovrebbero prenderlo in considerazione per realizzare uno spot promozionale! Oppure dovrebbero commissionarne uno nuovo al compositore e affidarne l’esecuzione alla Musica di ordinanza della Brigata alpina Julia! Come accadde, per esempio, al medico, chimico e compositore russo Aleksandr Porfir’evič Borodin. Nel 1879 gli venne affidata la realizzazione di uno dei cosiddetti dodici tableaux vivants per celebrare il giubileo d’argento dello zar Alessandro II, celebre anche per fatto espandere l’Impero russo verso est. A dire il vero, a causa del tentato omicidio dello zar (avvenuto nel mese di febbraio di quello stesso anno, nel Palazzo d’Inverno), il progetto iniziale non fu realizzato. Ma il poema sinfonico era stato composto (e fu eseguito in pubblico, proprio nel teatro del Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo – l’8 aprile 1880 – dalla Orchestra dell’Opera Russa diretta da Nikolaj Rimskij-Korsakov) ed è tuttora ben accolto nelle sale da concerto. Come in questa occasione, pressoché perfetta, a Pozzuolo del Friuli da parte dei musicisti della Julia, diretti dal Graduato scelto Antonio Tomaipitinca.

In una steppa desertica nella zona del Caucaso si ode una canzone russa poi, in lontananza, il trotto di cavalli e cammelli e una melopea orientale racconta il passaggio di una carovana di genti indigene (probabilmente di etnia armena o azera), scortata da un plotone di soldati russi. Mentre la carovana si allontana lentamente dall’ipotetico luogo in cui viene immaginificamente a trovarsi l’ascoltatore, fino a scomparire dalla linea dell’orizzonte, la canzone russa e il canto asiatico si fondono in una sola armonia che si perde nella steppa: una struttura semplice, ma oltremodo efficace, che presenta i due temi caratteristici prima indipendenti poi insieme in contrappunto, mentre le lunghe note tenute ed in ritmo di marcia evocano la traversata di un paesaggio più che vasto, senza limiti. L’arrangiamento per banda di Flavio Vicentini non ha fatto perdere tale sapienza narrativa alla composizione originale di NELLE STEPPE DELL’ASIA CENTRALE. Lo stesso si può dire dell’arrangiamento per banda che Fulvio Creux ha scritto della FANTASIA EROICA di Francesco Paolo Neglia.

Il Maestro Creux in persona così la descrive: “La Fantasia Eroica è stata scritta alla vigilia della Grande Guerra: è un grande affresco sonoro ricco di contenuto, che mai cade nella banalità o nella retorica, come avviene per molta musica coeva, specie per banda; in essa possiamo comprendere la tensione e l’ideale creativo di questo compositore, che anticipa di 10 anni la più nota esperienza dei compositori della cosiddetta “generazione dell’80”, ottenendo risultati di pregio in un’epoca nella quale il travaglio per il trapasso tra l’imperante genere lirico ed il nascente (per l’Italia) genere sinfonico era molto sentito: sapienza contrappuntistica, ricchezza armonica, eleganza melodica sono gli ingredienti capaci di fare del compositore siciliano una figura significativa della composizione musicale nel primo ‘900 in Italia. L’indicazione iniziale è “Tempo di Marcia”, ma il richiamo è solo nell’agogica, nulla di più. Ben si coglie, in questo brano, la accennata sapienza contrappuntistica dell’autore: si susseguono/alternano tre idee principali: Tema squillante (ascendente) delle Trombe, sviluppato come un Fugato; Movimento a gradi congiunti di Crome; Tema cantabile, affidato da principio ai Clarinetti, che poi tornano tutte e tre sovrapposte, nel climax
della composizione che precede (dopo aver ripreso il Tema iniziale “Inverso”, discendente questa volta) la solenne Coda conclusiva.”

Il Graduato Scelto Damiano Giacomuzzi, oltre a introdurre i brani musicali in programma, ha letto alcune parti del romanzo autobiografico di Giulio Bedeschi Centomila gavette di ghiaccio per contestualizzare, anche per mezzo della proiezione di immagini d’epoca, il dramma della battaglia di Nikolajewka e della ritirata di Russia. Tutto il programma musicale è stato, infatti, pensato per raccontare in musica quella tragica campagna militare.

Nikolajewka è la località spersa nella vasta pianura russa, dove scorre il fiume Don, divenuta famosa per la battaglia disperata ingaggiata dagli uomini della Divisione Tridentina, unitamente a quelli d’altre unità combattenti alpine, per uscire dall’accerchiamento che l’esercito sovietico aveva creato attorno a queste truppe e ad altri quarantamila sbandati sia dell’armata italiana sia delle forze alleate (tedeschi, ungheresi e rumeni). Il 26 gennaio 1943, con 30° gradi sotto zero, dopo giorni di ritirata sempre incalzati dalle truppe e dai partigiani russi, con equipaggiamento “standard”, cioè che andava bene sia in Africa sia in Russia, e con armi inadeguate (arma individuale era il moschetto mod.1891), gli alpini, quasi con un atto disperato, urlando e brandendo i fucili a mo’ di clava dopo aver terminato le munizioni, incitati dal loro comandante, il generale Riverberi, che dall’alto di un carro armato tedesco, a più riprese, urlava “Avanti Tridentina!”, riuscirono a rompere l’accerchiamento prendendo di sorpresa i russi che rimasero sbigottiti di tanta irruenza. Ma la vittoria non fu incruenta! Gli alpini, che già erano stati decimati nelle settimane precedenti dal meglio equipaggiato ed armato esercito sovietico, ma, soprattutto, dal grande gelo dell’inverno russo, lasciarono migliaia di morti e di feriti sulla neve della piana di Nikolajewka che precedeva il terrapieno della ferrovia oltre la quale si apriva la via del ritorno a casa. A Bepi De Marzi é stata sufficiente una sola parola per descrivere quel dramma, ma la narrazione da parte di Damiano Giacomuzzi l’ha trasformata in un “docufilm” che lascia il segno in chi ne ascolta l’esecuzione diretta dal Sergente Maggiore Flavio Mercorillo.

Mi ha colpito molto anche la descrizione che ne ha fatto Sergio Piovesan: “LE VOCI DI NIKOLAJEWKA non contiene un testo, ma solo una parola, Nikolajewka, che scandisce la musica di questo canto con una melodia minimamente ispirata alla musica popolare russa, una melodia che, sembrando provenire da lontano, ricorda dapprima il miraggio della salvezza che per molti, invece, termina con le urla di chi è senza speranza; sono quindi le voci della disperazione che ci vogliono ricordare quanto la guerra sia crudele, brutale e disumana, qualsiasi guerra, anche quella che oggi è considerata “giusta”. Non esistono guerre di questo tipo! Fu, quella che terminò 60 anni fa, una guerra che sconvolse il mondo e che procurò immani sofferenze ai soldati, alle popolazioni civili ed alle comunità ebraiche. E noi cantiamo LE VOCI DI NIKOLAJEWKA, e lo canteremo sempre, invitando il pubblico ad ascoltare il brano nello spirito del ricordo e come ammonimento per adoperarsi tutti affinché non vi siano altre “Nikolajewke”.”

Fu un’altra guerra (la cosiddetta Grande Guerra, la Prima Guerra Mondiale) a ispirare Arturo Zardini, un maestro di Pontebba (paese che, all’epoca, si trovava sul confine italo-austriaco: l’abitato dall’altra parte del fiume che segnava la linea di demarcazione si chiamava Pontafel) profugo a Firenze. Forse proprio in Piazza della Signoria, leggendo sul giornale le notizie delle stragi che avvenivano al fronte, lo Zardini, commosso e rattristato da quelle vicende, trasse l’ispirazione del testo e della musica. STELUTIS ALPINIS é, infatti, un canto d’autore. Da molti è ritenuto di origine popolare (caratteristica comune a tutti quei canti che, nel testo e nella musica, raggiungono livelli di poesia tanto alta da diventare patrimonio di tutto il popolo), ma popolare lo divenne subito dopo: fu fatto proprio dagli Alpini, sia friulani sia di altre regioni, e ancora oggi é considerato il canto simbolo non solo delle truppe alpine, ma anche del popolo friulano. La Musica di ordinanza della Brigata alpina Julia ne ha eseguito l’arrangiamento per banda di Paolo Frizzarin,

È un compendio di sofferenze, di dedizioni, di intimità, di affetti, di certezze. Non più canto, non villotta, ma preghiera profonda e, nello stesso tempo, semplice ed umana. Ma per i Friulani non é soltanto il canto dell’Alpino morto, ma un inno per la loro terra che, dopo quella immane tragedia, ha vissuto (affrontandole sempre con dignità e superandole, spesso proprio con l’aiuto degli Alpini della Brigata Julia) altre sofferenze: un’altra guerra, invasioni straniere, lotte fratricide, dolorose emigrazioni, terremoti…

Inevitabilmente, mentre scrivo, il mio pensiero va alle vittime, ai feriti, ai dispersi e ai soccorritori impegnati nelle aree del Kurdistan settentrionale e occidentale, della Siria e della Turchia colpite – proprio poche ore dopo la fine del concerto NIKOLAJEWKA…RITORNO ALLA BAITA. Zone già straziate da guerre fratricide. Zone in cui, probabilmente, i nostri Alpini potrebbero portare fratellanza e pace mentre soccorrono e ricostruiscono. Come hanno sempre fatto. Come tutti, nel mondo, gli riconoscono. Con il VALORE ALPINO

VALORE ALPINO, nota anche come Trentatré, fu scritta per il battaglione Susa da Eugenio Palazzi (le parole sono, invece, di Camillo Fabiano), ispirato a una canzonetta francese intitolata Fìers Alpins, e prese subito una tal voga da essere. cantato da tutte le truppe alpine al fronte durante la Grande Guerra fino a diventarne canto ufficiale e marcia di ordinanza.

Ben altra storia ha IL CANTO DEGLI ITALIANI (scritto e composto nel 1847 da Michele Novaro e basato su poemetto patriottico di Goffredo Mameli), inno nazionale della Repubblica Italiana, con cui si é concluso il concerto.

Ma é, per l’appunto, tutta ‘nata storia che non starò qui a raccontarvi.

PREGHIERA AL MILITE IGNOTO

Nella primavera del 1921, il colonnello Giulio Douhet – dalle colonne del settimanale Dovere, di cui era direttore – lanciò l’idea di onorare gli atti di eroismo e l’estremo sacrificio delle centinaia di migliaia di soldati italiani caduti durante la Prima Guerra Mondiale (e, soprattutto, dei tanti rimasti senza nome o senza degna sepoltura a causa della mancata indelebilità dell’inchiostro con cui erano scritti i nomi dei militari sul foglio matricolare che portavano al fronte, in una tasca interna della divisa) nella salma di un soldato sconosciuto che rappresentasse idealmente il marito, il figlio, il padre di quanti non avevano la possibilità di onorare le spoglie mai ritrovate del familiare disperso.
L’11 agosto di quello stesso anno, fu promulgato il provvedimento di Legge (n. 1075), che affidava al Ministro della Guerra la definizione delle modalità esecutive per la designazione e per le onoranze da rendere alla salma del caduto senza nome.

Il Ministro della Guerra in carica era, a quel tempo, il Deputato Luigi Gasparotto (eletto alla Camera – nel 1913 – nel collegio elettorale di Milano, ma nato e cresciuto a Sacile): sebbene esentato dal prestare servizio militare in quanto membro del Parlamento e nonostante l’età non più giovanissima (42 anni), egli aveva rinunciato al beneficio e combattuto in prima linea meritando, tra le altre, una Medaglia d’Argento al Valor Militare per il comportamento tenuto durante la battaglia per la conquista di Oslavia.
Il Ministro della Guerra, On. Gasparotto, così aveva disposto: <<Il 4 novembre p.v. si renderanno in Roma solenni onoranze alla salma senza nome, di un soldato caduto in combattimento alla fronte italiana nella guerra italo-austriaca 1915-1918… La salma – che avrà sepoltura in Roma, all’Altare della Patria – deve essere esumata nelle zone più avanzate delle nostre linee, dopo accurati e scrupolosi accertamenti perché sia garantita l’autenticità che essa appartenga ad un soldato italiano caduto in combattimento.
Affido pertanto il delicato compito all’Ispettore per le Onoranze Salme Caduti (Sua Ecc. Ten. Gen. Paolini) e prescrivo che a tale scopo esso costituisca una speciale Commissione da lui presieduta e composta: del Colonnello Paladini, capo dell’Ufficio Onoranze Salme Caduti e di un Ufficiale Superiore Medico destinato da] Direttore tecnico delle Onoranze Salme Caduti di questo Ministero (il Maggiore medico Nicola Fabrizi, N.d.R.). Ne faranno parte quattro ex combattenti e cioè: un Ufficiale, un sotto ufficiale, un caporale ed un soldato, che l’Ispettore anzidetto farà designare dal Sindaco di Udine (Luigi Spezzotti, N.d.R.).>>
Avrebbe accompagnato la commissione – ma senza farne parte integrante – il cappellano militare don Pietro Nani, già collaboratore del poeta Giannino Antona Traversi nella realizzazione del Cimitero degli Invitti sul Colle di Sant’Elia (l’attuale Sacrario militare di Redipuglia).
Circa l’esumazione delle salme, le disposizioni prescrivevano che le ricerche dovessero essere condotte <<nei tratti più avanzati dei principali campi di battaglia: San Michele, Gorizia, Monfalcone, Cadore, Alto Isonzo, Asiago, Tonale, Monte Grappa, Montello, Pasubio e Capo Sile.>>
Su ciascun campo di battaglia, alla presenza di tutti i membri della commissione, doveva essere ricercata ed esumata <<la salma di un caduto certamente non identificabile>> e, per ciascuna esumazione, doveva essere redatto un verbale che precisasse tutte le cautele adottate durante l’esumazione.
Le undici salme, infine, dovevano essere sistemate in altrettante identiche casse di legno, fatte allestire a Gorizia e traslate nella Basilica di Aquileia entro il 27 ottobre.
Il successivo giorno 28, dopo la benedizione dei feretri, la mamma di un disperso in guerra avrebbe designato la salma che doveva essere onorata in eterno come “Ignoto Militi”.
La bara prescelta doveva essere collocata all’interno di una cassa di legno lavorato ad ascia e rivestita di zinco, fatta allestire a cura del Ministero della Guerra e quindi doveva essere trasferita a Roma mediante uno speciale convoglio ferroviario.
I rimanenti dieci soldati ignoti sarebbero stati tumulati nel cimitero retrostante la Basilica di Aquileia .

Risultarono designati – in data 26 settembre, con delibera del Sindaco di Udine – il Tenente Augusto Tognasso di Milano (mutilato, con 36 ferite), il Sergente Giuseppe De Carli di Azzano Decimo (Medaglia d’Oro al Valor Militare), il Caporal Maggiore Giuseppe Sartori di Zugliano (Medaglia d’Argento al Valor Militare), il Soldato Massimo Moro di Santa Maria di Sclaunicco (Medaglia d’Argento al Valor Militare) e quattro sostituti. Essi furono convocati per una riunione – che si svolse il 2 ottobre 1921 presso la sede udinese dell’Ufficio per le Onoranze ai Caduti, all’interno di Palazzo Caiselli – durante la quale vennero definiti il piano per le ricerche, le modalità per la designazione e altri problemi organizzativi e logistici. Al termine della riunione, il Generale Paolini pretese da tutti i partecipanti (compresi gli autisti, i falegnami, gli scavatori e tutti coloro che – a vario titolo – avrebbero operato insieme alla Commissione) il giuramento che mai avrebbero rivelato i luoghi ove si sarebbero svolte le ricerche. Poi – attraverso la Strada Statale 13, Ponte della Priula, Bassano del Grappa e la statale della Valsugana – i membri della Commissione giunsero a Trento. Il giorno dopo, essi mossero da Trento alla ricerca della prima salma.

<<…attraverso Rovereto, avvolta ancora nel silenzio del riposo e quando il sole stava per baciare le cime di quei monti che furono teatro di grandi gesta…>> scrisse il Tenente Tognasso nel suo diario (da cui sono stati tratti il docu-film La scelta di Maria di Francesco Micciché, trasmesso da Rai 1 il 4 Novembre 2021, e Il figlio ritrovato. Milite Ignoto: La scelta https://youtu.be/9S9KxUt_vdw portato in tournée dal gruppo teatrale Il Canovaccio e dall’Orchestra di fiati delle Forze Operative Nord dell’Esercito Italiano, diretta dal Sergente Cosimo Taurisano). L’ufficiale – va detto, a suo onore – mai ha nominato località o precisato i luoghi nei quali si svolsero le ricerche. Quel che sappiamo, lo dobbiamo al Colonnello della Riserva dell’Esercito Italiano Lorenzo Cadeddu ed è frutto di anni di infaticabili e sofferte ricerche: <<…l’unica località del Trentino di cui si parla nelle disposizioni emanate dal ministro è il Tonale (e non Rovereto). In termini geografici il Passo del Tonale dista in linea d’aria circa quaranta chilometri da Trento in direzione Nord Ovest, mentre Rovereto dista da Trento venticinque chilometri in direzione Sud Est. Non è verosimile che la Commissione abbia commesso un così grossolano errore né che, arbitrariamente, abbia modificato le disposizioni del ministro. È probabile invece che il settore a sudest di Trento sia stato ritenuto più idoneo per la ricerca, in quanto teatro di più aspri combattimenti, rispetto al settore del Tonale. Proprio a Sud Est di Rovereto, erano situati i punti più avanzati della massima penetrazione italiana: Zugna Torta, Coni Zugna, Costa Violina, Monte Forno ed altre località (conquistate d’impeto nel 1915 e perse nel 1916, a seguito della Strafexpedition). >>

Nonostante le più accurate ricerche, tuttavia, non venne rinvenuta alcuna salma insepolta. Venne allora deciso di esumarne una tra quelle di ignoti sepolti in un vicino cimitero di guerra che raccoglieva <<..il maggior numero di eroi..>>.

Rifacendoci agli esiti delle ricerche del Col. Cadeddu, il maggior cimitero di guerra del trentino, nel 1921, sorgeva in località Lizzana, proprio vicino a Rovereto. Il luogo anticamente era denominato Castello di Lizzana e vi sorgeva la residenza dei conti di Castelbarco: successivamente la denominazione venne cambiata in Castel Dante perché, secondo la tradizione, il Sommo Poeta – della cui morte, proprio quest’anno, si commemora il settecentesimo anniversario – vi avrebbe soggiornato nel 1303.

Nel dicembre del 1915, le operazioni offensive della 1^ Armata avevano consentito alle truppe italiane di avanzare lungo la Val d’Adige verso Trento, sino a raggiungere il margine meridionale del dosso (detto anche Colle) di Castel Dante e, più a oriente, le zone di Corna Calda e Costa Violina: sulle posizioni raggiunte, le fanterie italiane si rafforzarono allestendo trincee blindate, camminamenti e postazioni per artiglierie in caverna; il pianoro prativo di Castel Dante venne occupato d’impeto – la notte di Natale del 1915 – dai fanti del 114° Reggimento di Fanteria della Brigata Mantova, che vi si insediarono e lo difesero dai vigorosi ripetuti contrattacchi austriaci fino a quando, nel maggio 1916 (nonostante la strenua difesa da parte del 1/207° Reggimento di Fanteria della Brigata Taro) il sistema difensivo del saliente trentino fu perduto e il Colle di Castel Dante passò nuovamente e irrimediabilmente di mano.

Poco tempo dopo il termine del conflitto, il Colle di Castel Dante venne destinato a cimitero per raccogliere le salme provenienti da oltre centocinquanta cimiteri di guerra della regione trentina. Appena varcato il cancello d’ingresso del vecchio camposanto (- l’attuale sacrario risale agli Anni Trenta – si scorgeva, sulla destra, una lapide (sormontata da due baionette) sulla quale era scolpito il verso dantesco: Tutta la perfezion quivi s’ac quista; sulla sinistra, si trovava un riquadro di sepolture lì trasferite da una qualche località di montagna, di cui erano stati conservati tutti i monumentini, i cippi e la grande croce. Proseguendo lungo il viale d’ingresso si vedeva, ben conservata, la trincea in cemento armato costruita dai fanti del 114° Reggimento di Fanteria della Brigata Mantova. Oltrepassata la ridotta, la strada si biforcava: il ramo di sinistra saliva direttamente in cima al colle, quello di destra invece conduceva a un ampio locale detto “Sala della Riconoscenza” dove, in tre grandi vetrine, erano custoditi ed esposti al pubblico i piccoli oggetti appartenuti ai Caduti e rinvenuti addosso a loro (medaglie, amuleti, distintivi, monete, orologi e persino, dentro un elmetto, un teschio recuperato in un imprecisato tratto di fronte) mentre, sulle pareti, erano esposte fotografie dei cimiteri di guerra originari. Proseguendo per il ramo di sinistra si giungeva all’ossario vero e proprio, che era stato ricavato dall’antica cisterna del castello dei Castelbarco: una ripida scaletta in pietra portava al fondo del pozzo che, durante la guerra, era stato usato come ricovero per le truppe – sia italiane sia austriache – che presidiarono alternativamente quella posizione. All’interno vi erano custodite, in altrettante casse di legno, quattrocento salme di soldati ignoti “adottate” da altrettanti “benefattori” che, in memoria di un familiare disperso, avevano fatto una consistente offerta per la manutenzione del cimitero. Una targhetta, inchiodata alla cassetta, recava il nome del “benefattore” mentre su una parete erano stati riprodotti due versi della Canzone di Castel Dante musicata dal M° Riccardo Zandonai: “In faccia ai nostri monti ove soffrimmo,/ in faccia alle trincee ove morimmo!“. Dall’ossario si poteva salire direttamente a una terrazza che si apriva, maestosa, su un ampio tratto della fronte trentina. Vicino a questo impareggiabile osservatorio erano stati piantati alcuni cipressi che proteggevano dal vento le tombe dei Legionari trentini. Su un muro, una lapide ricordava al visitatore il sacrificio di Castel Dante e dei suoi eroici difensori: “Qui ove Dante cantò,/ Federico Guella/ sottotenente volontario/ con olocausto della vita/ consacrò il sito/ giovinezza ardente/ ai geni nostri sacra alla libertà latina./ Bezzecca sua culla orgogliosa lo piange/ Rovereto sua scuola lo venera/ Italia lo canta/ Con Lui/ il nobilissimo sangue profusero/ soldato Canter Angelo (Brescia)/ soldato Faciale Giuseppe (Padova)/ soldato Soto Ignazio (Chieti)“. A destra, sul versante della collina esposto a mezzogiorno, erano state sistemate le sepolture che originariamente erano tumulate nei cimiteri militari di Serravalle, Nago, Santa Margherita e Marco. A sinistra, erano state sistemate le salme dei cimiteri di Vo, Avio, Borghetto e Pilcante, nella parte più alta di quest’ultimo riquadro era stata innalzata una grande croce di ferro illuminata nelle ore notturne. Una lapide in marmo, murata tra blocchi di tufo, recava incisa una epigrafe, dettata dal Capitano dei Bersaglieri Giannino Antona Traversi: “Dalle nude zolle di Pilcante ove ebbero prima sepoltura tra il rombo e le fiamme, Qui fraterna pietà volle composte queste salme gloriose in più degna cuna di pace meta per tutto l’avvenire ai devoti della Patria“. Piccoli viali separavano i singoli campisanti, ricostruiti esattamente come erano nelle località di origine rispettandone proporzioni e simmetrie. Nel cimitero di Santa Maria era stata eretta una cappella votiva dedicata alla Madonna che custodiva un’artistica statua in bronzo della Vergine, illuminata da una lampada votiva. Completavano il versante meridionale della collina i cimiteri di Mori, Lizzana e Besagno. A destra del viale centrale erano situati i cimiteri di Coni Zugna, Santi Maurizio e Lazzaro, Santa Barbara e San Matteo, mentre a sinistra erano il Cimitero del Redentore e il Cimitero di Santa Giovanna d’Arco. Elmetti, croci, bossoli e filo spinato ornavano, con altri oggetti cari alla memoria dei combattenti, le semplici sepolture dei soldati. Nel versante a Est della collina, oltre ad alcuni riquadri nei quali erano tumulati i caduti della Legione Cecoslovacca, vi erano i cimiteri di San Giorgio, dell’Addolorata, di Crosano, di San Valentino e di Brentonico. Nel mezzo della spianata, si ergeva una cappella recante la frase – semplice, ma oltremodo significativa – PAX VOBIS e, all’interno del sacro tempio, erano stati sistemati un semplice altare e un’acquasantiera (realizzata con materiale bellico). Tra queste sepolture si aggirò la Commissione per procedere all’esumazione di un Soldato sconosciuto


All’epoca – in quello che era il maggior cimitero di guerra del Trentino, in località Lizzana, vicino a Rovereto – erano tumulate settemilaottocentoquarantanove salme provenienti da circa duecento cimiteri più piccoli, disseminati nella regione: tra queste, ben tremilaottocento appartenevano a Caduti non identificabili. Un numero che indigna, scandalizza, spaventa. Vale la pena, d’altro canto, ricordare che – durante la guerra – i caduti venivano tumulati (se e quando possibile!) in piccoli cimiteri, allestiti a ridosso delle trincee, e senza che venissero adottate particolari cautele: i cadaveri, infatti, venivano sepolti nella nuda terra (talvolta in fosse singole, ma molto spesso in fosse comuni). Non di rado, dopo intensi combattimenti, il campo di battaglia rimaneva in mano allo schieramento nemico pertanto la eventuale sepoltura dei morti era affidata al buon cuore degli uccisori.
Tra quei seimila caduti ignoti fu presumibilmente esumata la prima delle undici salme tra cui sarebbe stata scelta quella del Milite Ignoto. Lo scavo venne eseguito a mano: pian piano vennero portate alla luce le diverse parti del corpo e, alla fine, <<…apparve un fante in atto di tranquillo e sereno riposo, vestito della sua uniforme e con indosso le giberne…>>

Ricomposti i resti su un lenzuolo, gli indumenti e gli oggetti personali del caduto furono accuratamente esaminati alla ricerca di un qualsiasi possibile elemento che ne consentisse l’identificazione, ma non venne rinvenuto nulla che potesse permettere di presumere una sua possibile identificazione: si trattava, senz’alcun dubbio, di un soldato ignoto. Più volte, nel suo scritto, il Tenente Tognasso, ha evidenziato la speranza (propria e di tutti i membri della Commissione e di tutti gli addetti allo scavo e al trasporto delle salme) che i resti esumati presentassero un qualsiasi segno che, consentendone l’identificazione, desse alle famiglie dei Caduti una pur minima consolazione. In quel caso, non fu possibile. Don Pietro, il cappellano, benedì la salma. Nel ricomporre la salma dentro una delle undici casse (fatte appositamente allestire a Gorizia), la mano pietosa di un soldato provvide a mettere rami di abete sotto la testa del caduto, come si trattasse di un cuscino. Inchiodato il coperchio, la cassa venne avvolta nel Tricolore e caricata su uno dei mezzi a disposizione della Commissione. Le auto ripercorsero la strada in direzione di Trento. Giunti nei pressi di Rovereto, una moltitudine di gente, che aveva pacificamente e silenziosamente invaso la sede stradale, costrinse i veicoli a fermarsi: erano cittadini di Rovereto, per lo più ex combattenti, che pregarono il generale Paolini affinché consentisse al mezzo che portava le spoglie del Soldato sconosciuto di attraversare la cittadina trentina a velocità ridotta, in modo che la popolazione potesse tributargli i doverosi onori. Nonostante la cittadinanza di Rovereto fosse, in qualche modo, venuta a conoscenza della presenza della Commissione solo poche ore prima, l’intera città fu completamente imbandierata e la quasi totalità degli abitanti si assiepò lungo le strade per far ala al passaggio del feretro. Giunta a Trento, la cassa venne sistemata su un affusto di cannone trainato da una pariglia di cavalli e trasferita sino al locale cimitero cittadino. Prima di essere sistemata per la notte sull’altare di una piccola cappella, la cassa contenente i resti mortali di quel Soldato Ignoto ricevette gli onori militari da parte di un reparto e l’omaggio di autorità e di semplici cittadini. L’indomani, alle prime luci dell’alba, la Commissione con il primo feretro mosse per la seconda tappa del suo pellegrinaggio alla ricerca della seconda delle undici salme. I mezzi si diressero ancora una volta verso Rovereto e – attraversando la Vallarsa, Pian delle Fugazze e le Porte del Pasubio – la Commissione giunse nel cuore del Massiccio che fu pilastro del sistema difensivo italiano durante la Grande Guerra.

Non sapremo mai chi descrisse tanto bene quei momenti all’assisiate Giovanni Papi (*) – che di Rovereto avrebbe diretto la Banda nel 1928 e di cui pochissimo si sa (solo grazie al prezioso archivio della Casa Editrice Tito Belati e alle ricerche di Giorgio Cannistrà) – ma questi luoghi e l’atmosfera che vi si respira e le immagini di quel corteo funebre si ritrovano nella sua PREGHIERA AL MILITE IGNOTO https://youtu.be/xZXpV0HsRWs : una meditazione, una preghiera intrisa di dolcezza che oserei dire materna…della dolcezza di tutte quelle madri, addolorate e fiere, al di qua e al di là delle Alpi che avevano perso i propri figli in guerra e che in qualche modo lo ritrovarono in quel soldato ignoto…della dolcezza della terra, altrettanto addolorata e fiera, in difesa della quale tanti giovani caddero combattendo. Di quella dolcezza – nulla si perde grazie alla giusta intonazione e alla espressione adeguata – in questa esecuzione da parte dei musicisti della Fanfara della Brigata Alpina “Julia” (di cui lo stesso Giorgio Cannistrà é insostituibile elemento) impeccabilmente diretti dal Sergente Maggiore Flavio Mercorillo.

Il Maestro Fulvio Creux – direttore emerito della Banda Musicale della Guardia di Finanza e della Banda Musicale dell’Esercito Italiano – ne ha detto un gran bene: <<Ascoltando questo brano si ha l’impressione che, più che alla tradizione bandistica italiana, appartenga a un gusto d’oltralope, sulla scia di importanti compositori di quei tempi. Si deduce questo dall’interesse delle armonie, dai frequenti cromatismi e dall’andamento generale, che porta il brano a essere più una meditazione che non, come sovente succede in questo genere, una marcia funebre. Il recupero ad opera di Giorgio Cannistrà si rivela utile per tutti quei complessi che vogliono presentare qualcosa di originale e diverso nei loro concerti legati a questo tema. Anche l’esecuzione del brano, abilmente diretto da Flavio Mercorillo, si evidenzia per la dolcezza, intonazione e l’adeguata espressione.>>