La tradotta diretta al Piave

Waiblingen-neustadt-1899

Una cartolina del 1899 dedicata a tutti, ma in particolare a chi ha dimenticato la storia della nostra Nazione e a coloro per i quali il 1899 rappresenta soltanto l’anno di fondazione della fabbrica di automobili FIAT o della squadra di calcio MILAN.

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Inni e marcette hanno accompagnato per decenni le truppe in armi durante le marce di spostamento e i momenti trascorsi in trincea nella pausa tra una battaglia e l’altra: erano – in fondo – utili a lenire le angustie di una guerra lunga e massacrante. Le cosiddette “truppe di pianura” preferivano le strofette spregiudicate e burlesche atte a denunciare il rancio sempre scarso e a prendersi gioco di qualche ufficiale imboscato o di qualche maggiore promosso al grado di colonnello “grazie al sangue dei poveri fantaccini che colorava il parapetto della trincea nemica”. Nelle trincee scavate nelle montagne del Veneto, del Trentino e della Carnia chi portava le stellette era invece solito condividere i rischi delle cannonate e dei congelamenti in alta quota e si accompagnava col soldato semplice nel precario isolamento forzato tra rocce e ghiacciai. Nei testi intonati dagli Alpini si leggono dunque note di tristezza per la precarietà dell’esistenza umana imposta dal conflitto e – per contro – di romanticismo e di amore per le valli e le vette. Per dirla come lo scrittore e reduce Paolo Monelli: <<In queste canzoni si sente un odor di paese, di castagne arrosto bevute col vino nuovo, di ragazze branciate dietro le siepi autunnali con oneste intenzioni matrimoniali; perché l’alpino incantona sì spesso la ragazza; ma poi la sposa; e vuole una sposa che sappia fare il pane e i biciolan; e attacchi per bene i bottoni al marito ca li taca in na maniera, ca li taca par dabon.>>
Canzoni stupende ancor più apprezzabili “allo stato grezzo” senza l’ausilio di elaborati arrangiamenti poichè in certi casi le parole da sole rendevano meglio di qualunque strumento musicale l’atmosfera, i pensieri, i rumori, i sentimenti e i suoni vissuti dalle Penne Nere. Un loro canto, magari nato durante la trepidante vigilia di un assalto o subito dopo una sanguinosa e spossante battaglia riesce a descrivere, meglio di una statistica ufficiale o di un saggio e persino di un diario, ciò che accadde quasi un secolo fa (il 2014 rappresenta il centesimo anniversario dall’inizio della Prima Guerra Mondiale , ma per l’Italia la Grande Guerra ebbe inizio l’anno successivo) e rimane come unica testimonianza capace di superare le barriere del tempo per serbarne il vivo ricordo della tragedia acché essa mai più si ripeta. Anche durante il conflitto quei canti di guerra servirono a richiamare alla mente dei combattenti non soltanto le doti e le virtù militari, ma anche la ragione ultima per la quale si soffriva, si combatteva e si sognava un rientro nella società civile della pace: l’ideale della Pace aiutò i combattenti a sopportare fatiche, privazioni e dolori, mentre il senso del dovere coadiuvò gli sforzi per realizzarlo. Le “Canzoni” della Grande Guerra furono ordinate per la prima volta nel 1919 a cura di Piero Jahier e poi nel 1930, a cura di Cesare Carvaglios: esse possono suddividersi in canti di esaltazione patriottica, di marcia, di dolore e di protesta. Al terzo di questi “gruppi” di canti di guerra è indubbiamente ascrivibile La tradotta che parte da Torino. L’analisi del testo le “affido” a Piercarla, un’alunna della classe V della Scuola Elementare di Verolengo (TO), mentre mi sono riservata la scrittura di qualche piccola precisazione ad uso di chi non ha dimestichezza coi termini militari né con la guerra:

La tradotta* che parte da Torino, a Milano non si ferma più ma la va diretta al Piave**, ma la va diretta al Piave. La tradotta* che parte da Torino, a Milano non si ferma più ma la va diretta al Piave**, ma la va diretta al Piave.cimitero della gioventù.  Siam partiti, siam partiti in ventinove ed in sette siam tornati qua. E gli altri ventidue? E gli altri ventidue? Siam partiti, siam partiti in ventinove ed in sette siam tornati qua e gli altri ventidue son rimasti tutti a San Donà***. Cara suora****, cara suora son ferito: a domani non c’arrivo più se non c’è qui la mia mamma*****, se non c’è qui la mia mamma. Cara suora, cara suora son ferito: a domani non c’arrivo più. Se non c’è qui la mia mamma, un bel fiore me lo porti tu. A Nervesa******, a Nervesa c’è una croce: mio fratello sta sepolto là. Io c’ho scritto su Ninetto*******, io c’ho scritto su Ninetto. A Nervesa, a Nervesa c’è una croce mio fratello******** è sepolto là: io c’ho scritto su Ninetto che la mamma lo ritroverà.

<<Questa canzone parla dei soldati che andavano in guerra: salivano su questo treno, la tradotta, che partiva da Torino e si dirigeva ai campi di battaglia vicino al fiume Piave che era come un cimitero di giovani ragazzi. Dei 27 che sono partiti, solo 5 fanno ritorno a casa e gli altri sono sepolti a S. Donà un paese sul fronte. Io penso a questi ragazzi che muoiono così giovani e alle loro mamme e provo pena per loro.>> Piercarla

* tradotta: convoglio ferroviario adibito al trasporto dei soldati;

** il fronte si era spostato sul fiume Piave dopo la disfatta di Caporetto;

*** San Donà di Piave (VE): <<Nella zona di San Dona’ di Piave, contrastata dalla nostra 3° armata, opero’ la 12° Divisione, inquadrata nell’Isonzo Armee. La fortuna dapprima arrise agli austro-ungarici, i quali riuscirono a passare il Piave in più’ punti, nonostante la resistenza opposta. Le forze italiane resistettero strenuamente ed una piena del Piave impedì di gettare dei ponti per garantire un regolare afflusso di rinforzi agli attaccanti. I successivi contrattacchi portarono alla riconquista del territorio già’ in mano austriaca. Alla fine della battaglia, poi detta del Solstizio, il fronte correva lungo il Piave Nuovo e tutto l’estuario era sotto controllo della terza Armata. Nell’autunno di quell’anno venne lanciata l’offensiva italiana contro l’ormai fatiscente esercito austro-ungarico ed il 31 ottobre San Dona’ era in mani italiane. Sin qui i principali fatti d’arme, ma cosa fu del territorio in quell’anno di battaglie? La risposta si può avere dalla decisione che ad un certo momento venne presa dalle autorità centrali di abbandonare del tutto la zona, considerando impossibile porre rimedio alle devastazioni compiute.>> Museo della Bonifica della città di San Donà di Piave

**** suora infermiera in servizio presso l’ospedale da campo

.***** non dimentichiamo che gran parte dei soldati che la tradotta portò da Torino direttamente alla linea del fronte sul fiume Piave anziché a Milano, dov’era una sorta di centro di addestramento, erano a malapena diciottenni – quando la maggiore età si raggiungeva al compimento dei ventuno anni – e nulla avevano a che vedere con gli “scafati” diciottenni del terzo millennio. Eppure quei “mammoni” sono i ragazzi nati nel 1899: proprio loro! Sono diventati famosi nel mondo per il motto “Classe 1899: classe di ferro” per la capacità di sopportare con coraggio e spirito di abnegazione battaglie (contro il nemico e contro le proprie comprensibili paure) e sacrifici inenarrabili per noi oggi assolutamente inconcepibili.

******Nervesa della Battaglia (TV): «Centro strategicamente importante tra il Piave ed il Montello, durante la prima guerra mondiale, fu teatro di violenti scontri tra gli opposti schieramenti che causarono la morte di numerosi concittadini e la totale distruzione dell’abitato. La popolazione costretta allo sfollamento e all’evacuazione, nonché all’abbandono di tutti i beni personali, dovette trovare rifugio in zone più sicure, tra stenti e dure sofferenze. I sopravvissuti seppero reagire, con dignità e coraggio, agli orrori della guerra e affrontare, col ritorno alla pace, la difficile opera di ricostruzione. Ammirevole esempio di spirito di sacrificio ed amor patrio» Medaglia d’oro al Merito Civile a Nervesa della Battaglia, 1915-1918

******* Ninetto è il ferito che chiedeva alla suora che l’assisteva di portare un fiore sulla sua tomba, qualora – come egli stesso presumeva – fosse morto lontano dalla propria mamma.

Planika

******** qui la suggestione è moderna e duplice: potete pensare a Band of Brothers se volete ritenere che la parola “fratello” si riferisca al sentimento di fratellanza che si sviluppò inevitabilmente tra i combattenti, ma dovete tenere conto che per molti di loro l’esperienza (o meglio l’inesperienza) al fronte durò pochissimo e non ebbero tutti modo di affratellarsi davvero; vi suggerisco pertanto di pensare a Saving Private Ryan http://youtu.be/mYF1V9oOBk4

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Non mi resta, dopo quanto sopra dichiarato, che proporvi La tradotta interpretata dal Coro della Brigata Alpina “Cadore”

Vorrei soltanto aggiungere, ad uso del Coro Polifonico Salvo D’Acquisto che sta preparando questo brano per il concerto che si terrà presso il Museo Storico della Fanteria di Roma, una postilla sulla “genialità” di chi ha armonizzato la versione scelta per voi: tecnicamente è forse più difficile di quelle che avete sin qui ascoltato, ma risulta assolutamente più suggestiva per chi ascolta. Gian Paolo Dal Dosso, infatti, è riuscito a mantenere l’atmosfera di struggente malinconia che aleggia su questo canto di guerra inserendo nella prima strofa ritmi e suoni caratteristici dello sferragliare del treno su un vecchio binario, con tanto di rallentamenti in salita e accelerazioni in pendio e trasmettendo proprio il senso di angosciante sorpresa per quei ragazzini che pensavano di essere portati con la tradotta militare al centro di addestramento nei pressi di Milano e invece si ritrovarono immediatamente sulla prima linea del fronte. La differenza di tempo tra la prima e la seconda parte nelle strofe successive serve a sottolineare la nostalgia per la vita povera, ma serena lasciata a casa e la rapidità con cui la guerra quella vita te la strappa via di dentro. In fondo, però, chi canta è ancora vivo e, nonostante tutto, ha persino la forza di cantare, combattere e continuare a vivere: che ci sia di stimolo acché la vita non ci trovi già morti dentro bensì la morte – quando giungerà (il più tardi possibile, ovviamente!) – ci trovi vivi davvero! Glielo dobbiamo ai ragazzi della classe di ferro 1899!

   

La leggenda del Piave

Nel marzo 1918 Arz von Straussenburg – capo di stato maggiore dell’esercito austroungarico – aveva rassicurato Erich Friedrich Wilhelm Ludendorff – capo di stato maggiore dell’esercito tedesco – circa il supporto strategico all’offensiva prevista per la successiva estate sul fronte italiano. I rapporti tra i due Imperi centrali erano infatti divenuti difficili da qualche tempo: da una parte l’Impero asburgico, ormai alle soglie della carestia alimentare, dipendeva fortemente dagli aiuti tedeschi che si erano rivelati indispensabili e risolutivi in occasione dello sfondamento a Caporetto, ma allo stesso tempo l’eccessiva intransigenza degli alti comandi tedeschi minava le possibilità di sopravvivenza dell’Impero asburgico. Per tali motivi, nell’aprile del 1918, Carlo I d’Austria aveva tentato di ottenere segretamente una pace separata nel 1917, ma i contenuti di tale progetto di accordo col nemico erano divenuti pubblici e nel maggio 1918 l’esercito tedesco aveva per questo costretto le truppe austroungariche a entrare in posizione subordinata nell’intesa pangermanica. Per recuperare la fiducia da parte dei tedeschi, i vertici dell’esercito austroungarico avevano deciso di sferrare un intenso attacco sul fronte del fiume Piave per piegare definitivamente l’esercito italiano, demoralizzato reduce dalla sconfitta di Caporetto, e ordinarono pertanto alle truppe della Landwehr (esercito imperiale austriaco) di raggrupparsi nella vicinanza delle località venete delle Grave di Papadopoli e del Monte Montello con il chiaro obiettivo strategico di sfondare le linee difensive, raggiungere la fertile pianura padana, impossessarsi delle scorte italiane, costringere il nemico all’armistizio e liberare forze da concentrare, in un secondo momento, sul fronte franco-tedesco della Prima Guerra Mondiale. L’offensiva era stata preparata con grande cura e larghezza di mezzi dagli austriaci (oltre sessanta divisioni!), la fiducia negli esiti di tale azione era elevata e il morale dell’esercito austroungarico era alto, nonostante la penuria di beni di prima necessità. Il piano d’attacco, a dire il vero, risentiva un poco degli scontri, personali e ideologici, tra i comandanti dei due corpi d’armata (Conrad e Boroević) ed era stato suddiviso in tre operazioni distinte: un iniziale attacco diversivo sul Passo del Tonale doveva anticipare i successivi attacchi da parte delle armate X e XI di Conrad (operazione Radetzky: dall’altopiano di Asiago verso Vicenza) e da parte delle armate V e VI di Boroević (operazione Albrecht: attraverso il Piave verso Treviso) che avrebbero costituito i bracci di una tenaglia da chiudersi nella zona di Padova. Gli italiani, grazie ai Servizi di Informazione attivati dal generale Armando Diaz, conoscevano in anticipo i piani del nemico tanto che nella zona del Monte Grappa e dell’Altopiano dei Sette Comuni i colpi di cannone delle artiglierie italiane anticiparono l’attacco degli austriaci, lasciandoli disorientati: le artiglierie del Regio Esercito, appena dopo la mezzanotte, per quasi cinque ore spararono decine di migliaia di proiettili di grosso calibro al punto tale che gli Alpini che salivano a piedi sul Monte Grappa videro l’intero fronte illuminato a giorno sino al mare Adriatico. Ai primi contrattacchi italiani sul Monte Grappa, molti soldati austriaci abbandonarono i fucili e scapparono, tanto che i gendarmi riuscirono a bloccare i fuggitivi solamente nella piana di Villach.

Sull’altro fronte della battaglia, arrivando da Pieve di Soligo e Falzè di Piave la mattina del 15 giugno 1918, gli austriaci erano riusciti a conquistare il Montello e il paese di Nervesa: la loro avanzata era continuata sino a Bavaria (sulla direttiva per Arcade), ma furono fermati dalla possente controffensiva italiana, supportata dall’artiglieria francese, mentre le truppe francesi erano stazionate ad Arcade, pronte ad intervenire, in caso di bisogno. Il Servizio Aeronautico italiano mitragliava il nemico volando a bassa quota per rallentare l’avanzata: durante tale battaglia aerea il maggiore Francesco Baracca, asso dell’aviazione italiana, venne ucciso per mano di un aviatore austriaco, come risulta dai registri dell’aviazione asburgica recentemente resi pubblici. Le passerelle gettate sul Piave dagli austriaci furono incessantemente bombardate dall’aviazione italiana e ciò comportò per gli austroungarici un rallentamento nelle forniture di armi e viveri ed essi, costretti sulla difensiva da una settimana di intensi combattimenti, decisero di ritirarsi oltre il Piave, da dove erano inizialmente partiti. L’improvvisa piena del fiume uccise, durante la notte, centinaia di soldati dell’esercito asburgico.  Questo evento contribuì non poco a dare nuova e decisiva forza alla resistenza delle Forze armate del Regno d’Italia.

Le truppe austro-ungariche tentarono di riattraversare il Piave. La mattina dell’attacco, sino dalle ore 4.00, il Feldmaresciallo Boroevic osservava, dalla cima di un campanile di Oderzo, il comandante delle truppe austriache, il feldmaresciallo Boroevic, osservava l’effetto dei proiettili oltre Piave: durante la Battaglia del Solstizio gli Austriaci spararono duecentomila granate lacrimogene ed asfissianti e quasi seimila cannoni austriaci spararono sino a S.Biagio di Callalta e Lancenigo e giunsero a colpire Treviso con proiettili da 750 kg di peso. Dall’altra parte del fronte, i contadini portavano secchi d’acqua agli artiglieri italiani per raffreddare le bocche da fuoco dei cannoni che martellavano incessantemente le avanguardie nemiche e le passerelle poste sul fiume dagli austriaci per traghettare materiali e truppe, facendo loro mancare i rifornimenti tanto da rendere difficile la loro permanenza oltre Piave. Nel frattempo gli italiani, alla foce del fiume, avevano allagato il territorio di Caposile per impedire agli austriaci ogni ulteriore tentativo di avanzata e dal fiume Sile i cannoni di grosso calibro della Marina Italiana, caricati su chiatte che si spostavano in continuazione per non essere individuati, tenevano occupato il nemico da San Donà di Piave a Cavazuccherina (Jesolo). Il punto di massima avanzata degli austriaci fu a Fagarè, sulla provinciale Oderzo-Treviso, ma qui gli Arditi – le truppe d’assalto italiane che non facevano prigionieri e che terrorizzavano il nemico andando all’attacco con il pugnale tra i denti – ricacciarono definitivamente gli austriaci sulla riva del Piave da cui erano venuti.

L’offensiva austriaca si rivelò dunque una pesantissima disfatta: l’Impero asburgico perse quasi centocinquantamila uomini tra morti, feriti e prigionieri. Le perdite italiane ammontarono a circa novantamila uomini, ma persino il generale croato Boroevic, comandante delle truppe austriache del settore e fautore dell’offensiva, capì che ormai l’Italia aveva superato la disfatta di Caporetto. La battaglia del Solstizio era l’ultima possibilità per gli austriaci di volgere a proprio favore le sorti della guerra e il suo fallimento, con un bilancio così pesante per le disastrose condizioni socio-economiche in cui versava l’Impero, significò l’inizio della fine: appena quattro mesi dopo giunse, infatti, la vittoria finale dell’Italia a Vittorio Veneto. A onor del vero vanno ricordati anche i numerosi combattenti francesi, statunitensi e britannici e, soprattutto, i soldati cecoslovacchi che combatterono dalla parte dell’esercito italiano: essendo infatti questi ultimi cittadini dell’Impero austro-ungarico, se catturati venivano giustiziati poiché considerati traditori della patria (ne vennero impiccati a decine sul viale alberato che portava da Conegliano a San Vendemiano). *

Subito dopo la Battaglia del Solstizio, Giovanni Ermete Gaeta** compose La leggenda del Piave, che ben presto i soldati conobbero grazie al cantante Enrico Demma. L’inno, pubblicato con lo pseudonimo di E. A. Mario a guerra ultimata, contribuì a ridare morale alle truppe italiane al punto tale che il capo di Stato Maggiore del Regio Esercito Italiano inviò un telegramma all’autore: «La vostra leggenda del Piave al fronte è più di un generale!».

Grazie a Marco Potenziani possiamo ascoltarne una bellissima versione cantata dal Coro dell’Associazione Nazionale Alpini di Milano con l’Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi di Milano http://youtu.be/_nZxY7DptqU

La leggenda del Piave
I Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il ventiquattro maggio: l’Esercito marciava per raggiunger la frontiera, per far contro il nemico una barriera. Muti passaron quella notte i fanti: tacere, bisognava, e andare avanti. S’udiva intanto dalle amate sponde, sommesso e lieve, il tripudiar de l’onde: era un passaggio dolce e lusinghiero. Il Piave mormorò: “NON PASSA LO STRANIERO”.

IIMa in una notte triste si parlò di un fosco evento*** e il Piave udiva l’ira e lo sgomento. Ahi, quanta gente ha visto venir giù, lasciare il tetto, per l’onta consumata a Caporetto! Profughi, ovunque, dai lontani monti venivan a gremir tutti i suoi ponti. S’udiva allor dalle violate sponde, sommesso e triste, il mormorio de l’onde, come un singhiozzo in quell’affanno nero. Il Piave mormorò: “RITORNA LO STRANIERO”.

E ritornò il nemico: per l’orgoglio e per la fame, volea sfogar tutte le sue brame. Vedeva il piano aprico di lassù: voleva ancora sfamarsi e tripudiare come allora…NO!” disse il Piave. “NO! – dissero i fanti – mai più il nemico faccia un passo avanti!” Si vide il Piave rigonfiar le sponde e come i fanti combattevan l’onde. Rosso del sangue del nemico altero, il Piave comandò: “INDIETRO VA’ STRANIERO!”

IVE indietreggiò il nemico fino a Trieste, fino a Trento, e la Vittoria sciolse le ali al vento. Fu sacro il patto antico: tra le schiere furon visti risorgere Oberdan, Sauro e Battisti. Infranse alfin l’italico valore le forche e l’armi dell’impiccatore. Sicure l’Alpi, libere le sponde…e tacque il Piave, si placaron l’onde. Sul patrio suol, vinti i torvi imperi, la pace non trovò NE’ OPPRESSI, NE’ STRANIERI.

Questa è stata invece eseguita dal Coro Polifonico Salvo D’Acquisto diretto dal M° Massimo Martinelli in occasione del Concerto di canti della Patria svoltosi presso il Teatro Comunale di Cagli (PU) il 1° luglio 2012 http://youtu.be/-arlWep52GA

Nella prima strofa, il fiume Piave assiste al concentramento silenzioso di truppe italiane avvenuto durante la notte tra il 23 e 24 maggio 1915, quando L’Italia dichiarò guerra all’Impero asburgico e sferrò il primo attacco contro l’Imperial regio Esercito austro-ungarico: era l’occasione per completare il processo di unità nazionale e liberare il Trentino e la Venezia Giulia dal dominio austriaco. Il nostro esercito, nel marciare coraggioso e silenzioso verso la frontiera con l’Austria, passò sul fiume Piave, che espresse poeticamente la sua gioia con il tripudio delle onde. La strofa termina con l’ammonizione Non passa lo straniero riferita, appunto, agli austro-ungarici.

La seconda strofa accenna alla disfatta di Caporetto e descrive la calata del nemico fino al fiume e la fuga degli sfollati e dei profughi provenienti da ogni parte del circondario. Era il 24 ottobre del 1917 quando  il nemico ruppe il fronte orientale italiano a Caporetto e tutte le nostre forze ebbero l’ordine di arretrare onde evitare l’accerchiamento: le perdite furono pesanti e ad esse si accompagnarono le polemiche. Si dovettero poi richiamare le riserve e arruolare persino i giovani (all’epoca la maggiore età era fissata a 21 anni) di 18 anni: la “classe 1899” per il valore ed il coraggio dimostrato si meritò l’appellativo di “classe di ferro”.

La terza strofa racconta del ritorno del nemico nel territorio italiano e delle sue atroci vendette contro la popolazione: il Piave pronuncia dunque il suo “no” all’avanzata dei nemici e la ostacola gonfiando il suo corso, reso rosso dal sangue dei nemici. Sulla nuova frontiera Monte Grappa-Piave si decisero infatti le sorti della guerra: la poderosa offensiva scatenata dagli austriaci nel giugno 1918 cozzò contro l’eroica resistenza degli italiani e le divisioni nemiche dovettero ripassare in disordine il Piave, sconfitte e incalzate dalle nostre valorose truppe. La battaglia del Piave costò all’esercito austroungarico oltre 150.000 uomini e rappresentò per l’Impero Asburgico l’inizio della sconfitta: gli austriaci e gli alleati tedeschi – come scrisse, dopo la guerra, il comandante tedesco Ludendorff – videro “cadere come foglie morte” nelle acque del Piave le loro speranze di vittoria.

Nella quarta e ultima strofa si immagina che dopo la vittoria, una volta respinto il nemico oltre Trieste e Trento, potranno idealmente tornare in vita i patrioti Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro e Cesare Battisti, che erano stati uccisi dagli austriaci. Era il 24 ottobre 1918 – anniversario della disfatta di Caporetto – l’esercito italiano lanciò una massiccia e generale offensiva che portò alla vittoria dell’Italia. L’avanzata italiana fu travolgente e il 3 novembre le truppe italiane, dopo aver catturato centinaia di migliaia di prigionieri, entrarono in Trento e Trieste determinando la resa dell’Austria e la firma dell’armistizio che sanciva la cessazione della guerra per il 4 novembre. http://youtu.be/dVAGOKbxiV8 La Pace trovò dunque gli italiani liberi sul patrio suolo, unito dalle Alpi al mare, e le acque del Piave poterono finalmente placarsi.

Questi versi, pregni di amor patrio,  fecero sì che da più parti si levasse la richiesta di adottarlo come inno nazionale dello Stato italiano, cosa che effettivamente avvenne dal 1943 al 1946 prima dell’adozione de Il Canto degli Italiani di Michele Novaro.

Nel 1961 il comune di Roma deliberò di denominare col nome di via Canzone del Piave  una strada del quartiere Giuliano-Dalmata, chiamato così perché destinato ad accogliere gli esuli italiani provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia: tale scelta costituisce tuttora un caso rarissimo di toponimo urbano ispirato a un brano musicale.

Ancora oggi La leggenda del Piave o La canzone del Piave viene eseguita da bande e fanfare, specie in occasione di cerimonie in onore dei Caduti, solitamente subito dopo il Silenzio e unitamente all’inno nazionale della Repubblica Italiana.

Vi propongo l’esecuzione della Banda dell’Arma dei Carabinieri diretta dal M° Domenico Fantini nell’incisione su vinile del 1962 http://youtu.be/OWfbfdY_je8 , l’esecuzione dal vivo http://youtu.be/5sboPfG1opA della Banda dell’Esercito diretta dal M° Fulvio Creux, la versione incisa dalla Banda della Guardia di Finanza http://youtu.be/PBRPejmgPAQ e l’esecuzione dal vivo da parte della Fanfara Alpina Tridentina (sciolta il 31 dicembre 1999) ma formatasi nuovamente e composta da volontari diretti dal M° Tempesta http://youtu.be/_kCE6OdBpY0

* In quel periodo si trovava nella zona di Fossalta il futuro premio Nobel per la letteratura Ernest Hemingway, allora diciottenne, che si era arruolato volontario con la Croce Rossa degli Stati Uniti e prestava servizio in zona come autista di autoambulanze: ferito dalle schegge di una bomba e da un proiettile di mitragliatrice, continuò a prodigarsi nel salvataggio dei militari feriti e per questo fu poi decorato con la medaglia d’argento. Da questa personale esperienza e dal successivo ricovero in un ospedale milanese trarrà il suo celebre romanzo Addio alle Armi.

** Giovanni Gaeta scrisse anche Vipera, Le rose rosse, Santa Lucia luntana, Profumi e balocchi.

*** All’epoca della prima stesura di questo brano, si pensava che la responsabilità per la disfatta di Caporetto fosse da attribuire al tradimento di un reparto dell’esercito. Per questo motivo, al posto del verso “Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento” vi era la frase “Ma in una notte triste si parlò di tradimento“. In seguito fu appurato che il reparto ritenuto responsabile era invece stato sterminato da un attacco  nemico con gas letali e si pensò così di eliminare dalla canzone il riferimento all’ipotizzato tradimento, considerato non solo impreciso storicamente ma anche sconveniente per il regime.